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Arte e Testimonianze

L’arte di Silvia Rocci

Tra Naturalismo e Simbolismo Figurale

Silvia Rocci è protagonista del panorama artistico torinese, con un percorso che unisce naturalismo e simbolismo figurativo. La sua pittura è un viaggio continuo tra luoghi, stagioni ed emozioni, in cui si intrecciano paesaggi e profonde riflessioni sulla condizione femminile.

Al di là dei soggetti, nei suoi dipinti si percepisce una sensibilità rara, fatta di malinconia e intensità, come in una poesia di Ada Negri. La sua arte nasce da un’osservazione costante e da una passione innata, testimoniata da una dedizione instancabile.

Nata a Genova, formatasi tra studi classici, musica e pittura, si trasferisce a Torino nel 1938, dove perfeziona la tecnica del disegno e del nudo dal vero. La sua carriera inizia con una personale a Biella nel 1954.

Nel tempo, il suo stile evolve: da un naturalismo attento e minuto a una pittura più decisa e materica, in equilibrio tra memoria e modernità. I paesaggi dell’Appennino ligure, del Monferrato e della campagna piemontese diventano protagonisti di una narrazione visiva carica di emozioni. Anche nelle opere più recenti, si ritrovano la stessa atmosfera densa, i silenzi dell’autunno, e la poesia di un tempo sospeso.

Negli anni, ha sviluppato un percorso personale che, partendo da un naturalismo simbolico, si è aperto anche a esperienze più astratte. Le sue opere giocano con la luce, la materia e il colore per evocare atmosfere sospese, spesso dominate da silenzi e memorie.

Negli anni Sessanta, la sua pittura si fa più rarefatta e inquieta, esprimendo una riflessione sulla società moderna e i suoi disagi. Emergono così figure simboliche: “uomini-pipistrello”, principesse silenziose, un Orfeo malinconico — immagini sospese tra tormento e delicatezza, caratterizzate da una linea incisiva e da colori trasparenti.

Le opere di Silvia Rocci attraversano un ampio spettro emotivo: dalla malinconia alla solitudine urbana, dall’alienazione sociale al vuoto esistenziale. Figure come Eva, Arianna, La terrazza esprimono una sensibilità romantica, mentre i paesaggi più recenti evocano silenzi sospesi e atmosfere quasi religiose.

Negli anni Ottanta, la sua pittura si fa ancora più rarefatta e introspettiva, con opere come Mattino in palude e Serenità, dominate da una luce interiore. Le figure femminili — da Didone all’Ultima regina — diventano simboli di una visione mistica e surreale, dove la ricerca dell’intimo femminile si intreccia a un simbolismo profondo.

Come osservato dalla critica, Rocci tende a fissare in immagini i mutamenti interiori, con un linguaggio pittorico che cristallizza la sua personale riflessione sull’animo umano, in particolare sull’universo femminile.

Le testimonianze

il biellese silvia rocci

D. A. – 29 ottobre 1954

“La torinese Silvia Rocci che espone in questi giorni alla «Piccola Galleria» un buon numero di olii, quasi tutti paesaggi, si potrebbe definire, per tentare subito di inquadrare la sua sensibilità artistica e il suo modo pittorico, una «sentimentale della pianura padana».

I suoi soggetti, maturi per taglio e scelta, sono infatti immagini della calma quiete desolata altre volte serena, propria delle piane piemontesi e della bassa lombarda: e è l’interpretazione che la pittrice ne dà aderente all’atmosfera un po’ stagnante, immobile, delle case, delle strade, dei filari d’alberi che ne rompono le tranquille distese.

Una immagine appena più forte, un colore più fresco, un contrasto felice le differenziano: oppure una pineta ed un monte attirano la fantasia dell’artista: ma l’impressione complessiva è di armoniosa continuità, priva di improvvisi mutamenti. Pittura solida, talora quasi maschile, nella tradizione della paesistica piemontese: con qualche ingenuità e qualche incertezza che non ne compromettono la validità già oggi da riconoscere, grazie specialmente ad una ottima scelta nei grigi ed ai toni bassi e pastosi.
Una buona pittura insomma, che il tempo potrà affinare sulla salda base di cui oggi dispone.”

la stampa silvia rocci

Marziano Bernardi, 16 gennaio 1960

Silvia Rocci con una sessantina di pitture alla galleria «Caver» è alla sua terza o quarta «personale» torinese; e chi non sapesse che il suo alunnato artistico s’è fatto a Genova e che poi dipinse figure sotto la guida di Venanzio Zolla potrebbe pensare a una sua predilezione per la pittura lombarda fra Ottocento e Novecento, e particolarmente per il Gola. Ritroviamo cioè quasi immutati, anche se più studiosamente meditati, certi paesaggi delle mostre precedenti, intrisi d’una atmosfera acquosa, spogli e un po’ squallidi, solitari e silenti nel grigiore dell’autunno, o coi gelsi stecchiti profilati neri sulla neve marcia del tardo febbraio quali molti dipinse quel maestro del naturalismo romantico, e che restano le cose migliori della Rocci.

C’è in lei un sentimento paesistico poeticamente vivo, che meriterebbe talvolta d’essere espresso con un colore di stesura più intima, più «pensata». Comunque ci sembra lodevole il suo coraggio di «resistente» all’allettamento di linguaggi che ne farebbero forse più una delle tante reclute dell’esercito dei sedicenti interpreti della «inquietudine del nostro tempo» ma la porrebbero certamente fuori da una visione pittorica che nella sua tranquilla modestia è ormai liricamente definita. Tanto più che non è escluso un ritorno del gusto verso i riposanti motivi amati dalla Rocci, per il bisogno di realtà platoniche meno incerte delle attuali.

unione culturale

Armando Capri, aprile 1955

La solidità estetica di Silvia Rocci può far pensare che la sua pittura sia tutta nelle cose, e che dai precisi contorni delle cose derivi tutta la sua poesia.

Il suo è infatti un talento pittorico prepotente e di ottima lega, che nel disegno sembra sfogare sia la ricchezza delle emozioni che l’intento d’arte. Ma per poco che si osservino le opere da lei affidate all’Istituto «Europa Giovane», ci si avvede che il carattere di questa nitida pittura è frutto di un difficile, tribolato equilibrio fra il bisogno di dir tutto e subito, e l’umiltà di dover impiegare, in pieno secolo ventesimo, una grammatica perfettamente corretta. Della qual cosa noi vogliamo subito renderle merito, contro le pretese di coloro che si ostinano a voler guardare le cose con un occhio solo, se non a chiuderli entrambi.

Crediamo che le figure e i paesaggi di Silvia Rocci abbiano qui dato luogo ad una mostra di concreto valore, da considerare nella varietà dei suoi impegni e nelle più o meno velate intenzioni polemiche dell’abilissima autrice: di un ritorno al passato, o meglio di un eterno presente della pittura, sembra proporre la strada e le possibilità.

Che siano dei pittori giovani, poi, a praticare un simile cammino ed a prolungare una riconsiderazione della natura e dell’uomo secondo un ordine ed un ritmo formale che risale al buon Dio, può essere un messaggio che certe antenne sensibili, e sempre a caccia di nuovo in pittura, non hanno ancora captato. Eppure artisti come Silvia Rocci, tra i giovani ed i giovanissimi, sembrano aumentare di numero e di aggressività.

Bartolomeo Gallo, febbraio 1966

Il nome di Silvia Rocci, pittrice, è noto da anni nell’ambiente torinese per la partecipazione ad importanti mostre personali e collettive, riscuotendo puntualmente l’attenzione della stampa e del pubblico sensibile.

Allieva di Venanzio Zolla, scomparso da qualche anno ma considerato un pilastro della tradizione romantica piemontese, Silvia Rocci ha dimostrato di possedere una propria visione pittorica, originale e profonda. L’eredità di Zolla è rintracciabile nella composizione solida e nell’impianto figurativo, ma la pittrice se n’è progressivamente distaccata con una coerenza ammirevole, fino a costruirsi un linguaggio autonomo, fatto di un cromatismo sobrio, controllato e di una sensibilità lirica che la distingue dai coevi interpreti del paesaggio.

Nei quadri d’impianto ad olio, di disegno sicuro, e di limpida impostazione, Silvia Rocci ha sempre rifiutato le suggestioni delle mode effimere, preferendo seguire la via di un costante approfondimento interiore. L’artista ha così sviluppato un vero e proprio linguaggio personale, saldo e privo di compiacimenti, nel quale la sua volontà di “resistenza” al facile successo appare evidente. I suoi paesaggi, che siano scorci di pianura, alberi scheletriti invernali, case isolate o distese collinari, non sono mai semplici vedute descrittive, ma meditazioni poetiche e vibranti, segnate da un intimismo sobrio e mai enfatico.

Rocci espone da lungo tempo e ha sempre confermato un impegno costante, che si traduce in una pittura compatta, priva di esitazioni. Ogni quadro è sorretto da un disegno fermo, da una struttura compositiva limpida e da una tavolozza che predilige i toni bassi, pastosi, mai gridati.

Alcuni aspetti della sua ricerca, come i paesaggi innevati, i filari di alberi spogli, i campi desolati o le architetture rurali, assumono quasi un valore emblematico: sono immagini di solitudine e silenzio, in cui si riflette una poetica interiore di compostezza e di riflessione.

In questo senso la pittura di Silvia Rocci si pone come una presenza di continuità e insieme di rinnovamento: continuità nel solco della tradizione piemontese e lombarda, rinnovamento nella capacità di trasformare la descrizione oggettiva in poesia intima.

In occasione di questa antologica alla galleria Fogliato, l’artista presenta una scelta significativa della sua produzione, che copre un lungo arco di attività: dalle opere giovanili più legate alla lezione del maestro, fino a quelle più recenti, dove il suo linguaggio si è fatto più personale e maturo, tanto dal punto di vista disegnativo quanto da quello cromatico, più controllato e soffuso.

la stampa silvia rocci

Angelo Dragone, 4 febbraio 1979

La personale con cui per la terza volta Silvia Rocci si presenta alla galleria Fogliato (via Mazzini 9) comprende un’ampia scelta di opere datate fra il 1942 e il ’78 che le danno il carattere d’una vera e propria mostra antologica. La varietà dei motivi, nei quali da sempre la pittrice torinese si cimenta, contribuisce a mettere in evidenza la diversa ispirazione da cui ella muove, con una flessione di un linguaggio che non ignora la severa costruzione di certi paesaggi giocati tra bianche distese nevose e nereggianti alberi in controluce.

Trova poi modo di liberare le sue segrete venature fantastiche quando, come in “Immagine lontana”, “La bella Angelica” ed altre simili la Rocci indugia in delicatezze tonali già care allo Zolla (che fu suo maestro), sposandole a un proprio gusto dell’arabesco.

Il meglio di questa pittrice ci sembra vada tuttavia cercato in opere come “Piccolo albero e grano”, “Langhe”, “Grano e tetto rosso” dove forma e colore giungono alla più equilibrata ed intensa capacità espressiva.

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